
Come comitato promotore della legge d’iniziativa popolare sul diritto allo studio esprimiamo con fermezza la nostra intenzione di voto favorevole al referendum del 17 aprile, per due importanti ragioni.
La prima è legata strettamente al testo del quesito referendario.
Il punto è chiaro e circoscrive (fin troppo) il problema: l’estrazione d’idrocarburi entro le 12 miglia (marine) dalla costa non può continuare per tutta la durata di vita utile del giacimento, ma deve cessare (procedendo alla dismissione e bonifica) allo scadere della concessione.
Com’è sempre stato, d’altronde, visto che l’articolo di cui viene richiesta l’abrogazione si trova nella legge di stabilità 2016, quindi di recentissima stesura (e attuazione).
Troviamo inaccettabile che le compagnie petrolifere possano usufruire di concessioni “a vita”!
Oltre a snaturare il senso della concessione in sé, esso non è altro che un utile contentino, svenderebbe completamente un bene appartenente alla collettività e forzerebbe una corretta dinamica di controllo e garanzia.
Inoltre, questa predisposizione entra in conflitto con la normativa europea in materia che stabilisce che l’estensione e la durata delle concessioni debbano “essere limitate in modo da evitare di riservare ad un unico ente un diritto esclusivo su aree per le quali la prospezione, ricerca e coltivazione possono essere avviate in modo più efficace da diversi enti” (Direttiva 94/22/CE)
Limitandosi all’effetto diretto della consultazione referendaria, essa si configura come una battaglia di civiltà che chiede il rispetto di una concessione e la sua naturale decorrenza.
Nessun operaio lasciato a casa quindi, nessun calo di produzione improvviso, nessuna corsa all’importazione selvaggia!
Le concessioni interessate (21 in tutto) termineranno nel giro di 15-20 anni, rispettando tutto ciò che era stato pianificato in termini di occupazione e produzione al momento dell’avvio delle varie attività. La produzione complessiva di queste 21 concessioni è pari al 3,2% di gas metano e 1,1% di petrolio se rapportata ai consumi nazionali, cifre che verrebbero gradualmente portate a zero. Il beneficio sarà inoltre quello di aver liberato progressivamente (l’avvio di nuovi pozzi è già vietato dalla legge) un’area delicatissima dal punto di visto naturalistico, turistico e paesaggistico, oltre ad aver impedito l’ennesimo profitto ingiustificato.
Ma se il referendum è così poco impattante in termini di estrazione d’idrocarburi, tutto il discorso sul modello di sviluppo sostenibile dove s’inserisce?
Ed è qui che arriviamo alla seconda importante ragione.
Il referendum del 17 aprile rappresenta un’occasione per ricominciare a discutere collettivamente del nostro futuro. Negli ultimi anni le politiche energetiche nazionali hanno riportato in auge i combustibili fossili, che sistematicamente vengono spacciati come mezzi per l’autodeterminazione energetica e lo sviluppo economico (nonché essere terreni fertili per “commistioni” fra politici e dirigenti, si vedano i recenti fatti di Tempa Rossa).
Questo avviene principalmente per la mancanza di una strategia energetica a lungo termine nel nostro paese, nonché un’errata risposta alla crisi occupazionale (nel campo dell’economia marina, l’industria estrattiva produce meno posti di lavoro a parità di valore aggiunto, rapporto Unioncamere).
Serve definire con chiarezza quali sono le priorità e il voto del 17 aprile può far cambiare rotta ad una continua deriva in questo ambito.
Intraprendere la via dello sviluppo sostenibile (reale) non può essere considerato un vezzo. Deve diventare chiaro per tutti che stiamo parlando di una necessità improrogabile. Per noi ora, per chi verrà dopo di noi!
Sono ormai decenni che ricercatori di tutto il mondo ci hanno messo a conoscenza del problema legato al riscaldamento globale e tutte le sue conseguenze: innalzamento del livello del mare, acidificazione degli oceani, interruzione delle correnti, sconvolgimento degli ecosistemi. È un fatto.
Ci siamo cullati per troppo tempo con le potenzialità dei combustibili fossili. Abbiamo fatto le rivoluzioni industriali, abbiamo accelerato i processi di sviluppo tecnologico, abbiamo creato ricchezza (per pochi). Ma il motivo del successo degli idrocarburi è causa stessa del loro fallimento. I combustibili fossili non sono altro che accumuli di materia organica animale e vegetale, sepolti, maturati e conservati. Energia concentrata, di facile uso e trasporto. Però, per loro natura e composizione, sono parte del ciclo globale del carbonio, un insieme di processi chimici e fisici che regola la presenza di questo elemento nei rapporti tra litosfera, idrosfera, atmosfera e biosfera. Con la combustione degli idrocarburi, l’uomo ha prodotto un disequilibrio enorme in questo ciclo: quello che la terra aveva immagazzinato in milioni d’anni viene rimesso in circolo in poco più di un secolo. La velocità di questo cambiamento non permette al sistema Terra di tamponare lo scompenso, innescando a catena gli effetti elencati in precedenza.
Queste evidenze vengono sempre più prese in considerazione negli accordi internazionali per l’ambiente, sebbene nella pratica sia difficile garantirne il rispetto. Il recente accordo di Parigi, sottoscritto da 194 paesi, Italia compresa, che prevede di contenere l’aumento di temperatura sotto i 2 °C, non solo considera necessario ridurre il più possibile i consumi di combustibili fossili nel breve termine, ma impegna i paesi firmatari a lasciare sotto terra la maggior parte delle riserve certe d’idrocarburi. Che secondo alcuni esperti vengono stimate nell’82% di carbone, nel 49% di gas naturale e nel 33% di petrolio.
Tanti si lamentano che i potenti del mondo non rispetteranno mai questi accordi. Per una volta abbiamo noi la possibilità di farle rispettare. La vittoria del Sì permetterebbe all’Italia di iniziare ad adempiere il suo impegno, dismettendo gradualmente parte della produzione.
Siamo consapevoli che la strada verso un modello di sviluppo sostenibile non sarà per nulla facile. Non esistono soluzioni semplici a problemi complessi. Servono scelte coraggiose e investimenti seri per uscire dal circolo vizioso del “ormai è così”. Insomma, un cambio di rotta vero.
Noi in questa partita vogliamo starci. Voi?